Elena Bonetti: "la parità di genere è un vantaggio per le aziende"
Sono già tante le imprese che hanno ottenuto la certificazione della parità di genere. Non si tratta di un bollino di facciata, spiega l'ex ministra Elena Bonetti che l'ha fortemente voluta, ma dell'avvio di un percorso che migliorerà il sistema imprenditoriale e il mercato del lavoro femminile. Ecco gli indicatori che prevede .
Far crescere le donne conviene. Alle aziende, al sistema Paese. Le ragazze sono più brave dei compagni a scuola e all’università; poi però si arenano. Ancora oggi in Italia lavora solo una donna su due, siamo ultimi in Europa. Che fare? Un passo avanti è stato compiuto con il decreto del 29 aprile 2022 firmato dalla ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia del governo Draghi, Elena Bonetti, che ha fissato i parametri per la certificazione della parità di genere per le imprese. Un’opportunità preziosa che favorisce la crescita dei talenti femminili, riducendo il divario tra i sessi nei salari e nelle carriere, e tutelando la genitorialità. Finora sta funzionando bene, ma bisogna continuare a monitorare. Per proseguire ed evitare sbandate. Come ci spiega proprio Elena Bonetti, oggi deputata di Azione.
Come è nata la certificazione della parità di genere?
Nasce con la Strategia nazionale per la parità di genere che abbiamo varato col governo Draghi nel 2021 dopo aver consultato anche associazioni e imprese. Da lì siamo partiti per stabilire i parametri per migliorare il mercato del lavoro e il sistema imprenditoriale. A differenza di altre certificazioni, questa non dà una semplice valutazione dello stato di fatto, ma definisce i processi di miglioramento da portare avanti. Non c’è gender washing, non basta un bollino per sentirsi a posto.
Quali ambiti vengono valutati e come?
Le aree di valutazione sono sei: cultura e strategia, governance, risorse umane, opportunità di carriera e inclusione delle donne, parità salariale, tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro. Per ciascuna di queste sei aree ci sono dei KPI (Key Performance Indicator), ovvero indicatori di qualità, che vengono declinati in modo diverso a seconda delle dimensioni dell’azienda e del settore di produzione, seguendo i codici Ateco. Abbiamo voluto uno strumento trasversale e flessibile, in grado di adattarsi al tessuto italiano ricco di piccole e medie imprese,e a tante situazioni diverse. Non si può fare solo una valutazione quantitativa del processo, serve anche quella qualitativa.
Pensando proprio alle piccole e medie imprese, per loro non sarà un aggravio ottenere la certificazione, sia per i costi, sia per l’impegno?
Abbiamo voluto che per loro ci fosse un finanziamento specifico del Pnrr, proprio perché l’azienda che vuole iniziare un percorso ha bisogno di qualcuno che l’aiuti a riorganizzarsi, a fare dei cambiamenti. Sono consulenze che hanno un costo ma anche un effetto benefico, perché si può lavorare sui punti di debolezza, e migliorare la produttività.Ricordiamo che la certificazione è volontaria, su richiesta.
Quali sono i vantaggi per chi aderisce?
Due: il primo è un esonero sui contributi previdenziali fino a 50mila euro l’anno. Quindi, si pagano meno tasse. Uno sconto che è stato finanziato in modo strutturale dal governo Draghi con un fondo da 50 milioni di euro dal 2022. Il secondo prevedeva negli appalti pubblici un punteggio premiale e una diminuzione della quota di garanzia che l’azienda deve versare. Questi ultimi due punti sono stati prima cancellati dal governo Meloni, che poi ha reintrodotto la premialità ma non lo sconto sulla garanzia.
Come sta andando?
Molto bene. Sono state già rilasciate 1632 certificazioni, molte più del previsto. E i primi riscontri sono positivi. All’inizio molti temevano che fosse solo un fatto formale, burocratico, invece hanno scoperto che cambia la dinamica lavorativa. Si vede già una migliore efficienza del processo produttivo, un maggior benessere dei dipendenti, quindi più qualità del lavoro e la possibilità di valorizzare le competenze. Inoltre studi internazionali dimostrano che le aziende con leadership femminile e governance basata anche sulla diversity sanno affrontare meglio le sfide complesse, sono più resilienti e sanno cogliere al volo le innovazioni.
Un’azienda impegnata contro il divario di genere può essere più attrattiva per i giovani?
Certo, questo provvedimento serve anche a contrastare la fuga dei cervelli. Oggi i ragazzi e le ragazze cercano un posto remunerativo non solo per lo stipendio ma per la crescita personale e professionale; un impiego stimolante, vivace, che non li costringa a scegliere tra la famiglia e il lavoro, che lasci spazio alla vita personale in armonia con quella professionale. Questo è un tema chiave per un Paese con bassi salari e poche nascite come il nostro. I dati dimostrano che i giovani italiani desiderano avere figli come i loro coetanei degli altri Paesi. Solo che i nostri non realizzano questo sogno, non ci riescono. Allo stesso tempo abbiamo una potenziale classe dirigente di ragazze che abbiamo formato con alti risultati ma che poi occupano ruoli meno qualificati dei loro compagni. Con questo sistema vogliamo spingere per lo sviluppo non di una singola azienda ma di tutto il Paese. Abbiamo bisogno delle migliori energie.
Onorevole Bonetti, è sicura che questa certificazione della parità di genere non abbia punti di debolezza?
Mi sembra che stia dando risposte molto positive. Il meccanismo di monitoraggio coinvolge le parti sociali ed è importante che tra un paio d’anni si faccia il punto, per vedere dove migliorare. Sarebbe invece grave fare un passo indietro, non mettersi in gioco e rimanere dove si è, per inerzia. La certificazione non è un atto burocratico, un appesantimento delle pratiche, ma permette di dare più valore competitivo. I risultati per il Paese sono a lungo termine,ma quelli per le aziende si vedono subito.
C’è però un problema: la filiera. Come può un’azienda certificata controllare che ci sia rispetto dei parametri a tutti i livelli, ad esempio tra i fornitori, o nella lavorazione delle materie prime?
Questo è un passo in più, un altro elemento di sviluppo. La grande impresa che ha ottenuto la certificazione può intervenire a monte, nella filiera, ed essere di supporto alle piccole. C’è già chi lo sta facendo.
Intanto il tasso di occupazione delle donne tra i 20 e i 64 anni in Italia resta del 55 per cento, a fronte di una media UE del 69,3. Un dato troppo basso. Che cos’altro si può fare per migliorarlo?
Noi ci abbiamo provato con una riforma integrata, la legge 32/2022, ovvero il Family Act. La certificazione va nella direzione giusta,ma si dovrebbero dare più vantaggi fiscali alle aziende, portare avanti la riforma dei congedi parentali come previsto dal Family Act,aumentare gli incentivi al lavoro femminile. La decontribuzione prevista di recente per le lavoratrici a tempo indeterminato penso sia stato un errore. Bisogna piuttosto usare la leva dell’assegno unico per i figli che viene maggiorato per tutte le lavoratrici, anche quelle a partita Iva. Poi investire sul Welfare aziendale, le competenze Stem, gli asili nido, il tempo pieno. Le misure concrete sono già legge. Bisogna renderle esecutive.